Pensare sostenibile. Rivedere lo sviluppo – Io Donna

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Quand’è che ci siamo allontanati dalla Natura? Quando ci siamo attribuiti la licenza di consumarne tutte le risorse? A scartabellare nei miti fondativi della nostra società un punto d’inizio potrebbe rinvenirsi in quel «Riempite la Terra e soggiogatela» che Dio disse ad Adamo alimentando l’equivoco che il Pianeta potesse sopportare uno sfruttamento illimitato, in nome di un concetto divenuto nel tempo una sorta di Sacro Graal: lo sviluppo.

Una corsa inarrestabile che ci ha portato a essere la specie più pervasiva del pianeta che, mentre si autodistrugge, distrugge molte altre specie da cui dipende. Fermo restando che, dobbiamo tenerlo bene a mente, il Pianeta andrà avanti per millenni anche senza di noi, occorre stilare un nuovo impianto di pensiero, una griglia di principi e parole, nuovi o a cui dare un nuovo significato, da condividere e su cui costruire i rimedi, siano ad alto contenuto tecnologico o semplici stili di vita.

Il mito dello sviluppo

«Lo sviluppo è diventato il mito fondante della società capitalistica di mercato, senza il quale tutto crollerebbe, abbiamo perciò dovuto credere nel vangelo dello sviluppo» precisa l’antropologo Marco Aime nel libro Umani e non umani- Noi siamo natura (Utet), un pamphlet in cui varie voci di scienziati e studiosi si accordano per stilare una specie di manifesto che riporti l’uomo alla Natura da cui proviene. Aime riflette sull’urgenza di regolare l’uso dei beni comuni, cioè l’insieme delle risorse materiali e immateriali utilizzate da più individui e che possono essere considerate patrimonio collettivo dell’umanità. Partendo proprio da un ridimensionamento del termine sviluppo.

«Ormai è entrato talmente a far parte del nostro lessico che non si riflette più neppure sul fatto che la parola, nella sua accezione originale, è una metafora naturalistica: tutti gli esseri viventi nascono, si sviluppano e crescono, poi declinano e muoiono. Nel pensiero economicista moderno, si è omessa la seconda parte: non è prevista la fine, per cui lo sviluppo ha finito per coincidere con crescita infinita. Avallando l’adozione di un indice, il Prodotto interno lordo che, in maniera completamente sballata, misura la crescita economica senza tener conto dell’impatto dei sistemi produttivi sull’ambiente».

Ma questa idea della crescita infinita collide con il fatto che per ottenerla bisogna attingere a risorse sempre più finite perché le consumiamo molto più rapidamente di quanto possano rigenerarsi. «È urgente un cambiamento di rotta, occorre riappropriarsi dell’idea di bene comune, e per farlo bisogna innanzitutto avere principi comuni. La biodiversità, i diritti delle popolazioni native, le risorse energetiche, la salute, l’accesso al know how tecnologico, la gestione dell’acqua: tutti questi sono potenzialmente beni comuni. Eppure si tratta di un concetto che abbiamo dimenticato, solo due Paesi al mondo lo hanno inserito nelle loro Costituzioni: Bolivia ed Ecuador».

Il costo della tecnologia

Sviluppo uguale crescita è un’equazione perniciosa che riguarda anche l’universo digitale, di cui è difficile concepire la materialità e che spesso viene individuato come la soluzione ai problemi dell’ambiente. Eppure… «Il digitale ci ha fatto sperare che avrebbe consentito di risolverli e questa speranza forse ha tolto un po’ di lucidità nel renderci conto che nulla può essere totalmente immateriale, e dunque non avere nessun tipo di impatto sull’ambiente» spiega la professoressa Giovanna Sissa, docente di sostenibilità ambientale all’Università di Genova e autrice di Le emissioni segrete – L’Impatto ambientale dell’universo digitale (il Mulino) in cui spiega con semplicità dinamiche molto complesse e per certi aspetti inimmaginabili.

«L’idea che lo sviluppo digitale potesse essere illimitato, che la crescita dei dispositivi, delle connessioni, della potenza di calcolo, dei collegamenti potesse aumentare all’infinito senza conseguenze non ci ha fatto vedere invece come, anche se meno di altre industrie e attività, non è possibile che si possa crescere a dismisura senza effetti indesiderati». Un universo di cavi terrestri e sottomarini, stazioni radio, satelliti, computer, router cooperano per consentire a miliardi di smartphone, tablet, tv intelligenti, sensori e oggetti di ogni tipo di interagire e fare il proprio lavoro: si può pensare che tutto questo non concorra alla produzione di CO2?

L’impatto di cellulari e connessioni

«Che il nostro smartphone abbia un impatto perché contiene materiali preziosi e rari al suo interno lo comprendiamo. Più difficile è immaginare quello che succede al di là dei nostri dispositivi: quando siamo connessi a Internet, ogni attività digitale corrisponde alla richiesta di un servizio, che a sua volta necessita di un’elaborazione erogata altrove.Oltre ai dispositivi digitali finali, richiedono energia elettrica Internet e i data center, dove vengono creati e gestiti i servizi digitali che usiamo tramite i nostri dispositivi. Questi consumi di elettricità, che non sono né noti né visibili dall’utente finale, hanno un costo in termini di emissioni di CO2».

Anche in questo contesto, dunque, tutelare le risorse dovrebbe essere il primo imperativo. «Lo sviluppo dovrebbe essere declinato dal punto di vista ambientale,sociale ed economico.Su questi tre pilastri si basa la definizione di sviluppo sostenibile. La crescita è un concetto collegato, ma non è identico, non è esattamente sovrapponibile, proprio per i limiti che uno sviluppo sostenibile impone». La professoressa introduce anche un altro concetto. «Se vogliamo combattere il riscaldamento globale, perché gli effetti delle emissioni di CO2 sono sotto il nostro naso, non c’è altro modo che ridurle. Ogni attività, ogni settore, qualunque cosa contribuisca all’impronta di CO2 va approcciata con un atteggiamento di sobrietà, di non spreco, quello che sta alla base dell’economia circolare, del riuso, da favorire sempre compatibilmente con la funzionalità e la sicurezza. Una sobrietà che prevede, ad esempio,di evitare il ricambio frenetico dei dispositivi, o ancora, di non accettare sempre tutto ciò che viene proposto gratuitamente anche se non ci è davvero utile: un servizio non è mai gratuito, perché in cambio diamo i nostri dati e alimentiamo un ciclo di connessioni che consuma energia» spiega la professoressa.

Ci sono soluzioni tecniche? «Per esempio si possono progettare fin dall’inizio software che sappiano consumare meno energia quando “lavorano”. E le grandi realtà, piattaforme, social o servizi, potrebbero utilizzare il più possibile a monte le energie rinnovabili» conclude la professoressa che esorta tutti a una presa di coscienza dei meccanismi che stanno intorno al mondo digitale.

Tornare parte della natura

Il compito che ci attende è informarci, diventare consapevoli del fatto che la grande accelerazione tecnologica e industriale ha creato benessere ma anche uno squilibrio tra economia e mondo naturale, tra produzione esasperata e risorse limitate. E correre ai ripari, confidando in un cambio di rotta ancora possibile se torniamo a considerarci parte della natura e non sopra di essa.

«Dobbiamo creare un laboratorio di cura del presente che si avvalga dei contributi di scienziati, scrittori, costruttori di storie. Una sfida ai luoghi comuni in nome dei beni comuni, riconoscendo i limiti e gli errori evitabili nel cammino della scienza, delle nuove tecnologie e delle politiche. Bisogna saper pensare in grande, come i costruttori delle cattedrali del passato. Nessuno di loro ha mai visto la fine dell’opera che avevano progettato. Eppure lo facevano, pensando a un futuro senza di loro» conclude Aime.

Lo sviluppo in numeri

54 kilowattora consumati in un anno da un abitante del Niger

79 da uno del Burkina Faso

4.715 da un italiano

11.851 da uno statunitense

4% circa delle emissioni globali attribuite al mondo digitale, che dunque lascia un’impronta di carbonio più profonda del traffico aereo

35% le emissioni dell’agricoltura globale

18% dei gas serra prodotti dall’allevamento zootecnico

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April 7, 2024 at 05:05PM

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